Cerca
Close this search box.

La storia di Remo Bronzi: dall’impegno sportivo a quello sociale. Uno dei primi allenatori tesserati, portò il calcio femminile in Valdarno

Ricordare gli uomini e le donne che hanno lasciato un segno nel Valdarno, contribuendo alla sua crescita e al suo sviluppo. Valdarno 24 ha deciso di dedicare una rubrica in memoria dei “grandi valdarnesi” che con il loro spirito di iniziativa, impegno e inventiva hanno lasciato un’eredità sociale e civile che rappresenta una ricchezza per tutto il territorio.

Il primo capitolo della rubrica è dedicato a Remo Bronzi, grande sportivo, uno dei primi allenatori tesserati ufficialmente nonché colui che fondò la prima squadra di calcio femminile in Valdarno. Raccontiamo Remo, attraverso le parole e i ricordi nel figlio Nedo.

“Il mio babbo nasce nel 1929 in una famiglia di nove figli che versava in condizioni economiche molto difficili. Mio nonno Settimio era un muratore e pur di sfamare la famiglia si era inventato il così detto “tabacco chinato” ovvero il tabacco ricavato dalle sigarette usate che mio padre e i fratelli raccoglievano, chinandosi a terra. Fin dall’adolescenza mio padre si avvicinò allo sport. Nonostante nasca come boxeur, crescendo decise di dedicarsi al calcio approdando nella sangiovannese e debuttando, nel 1948, in prima squadra. Giocò in molte altre società per poi lasciare il campo nel 1958 in seguito a gravi incidenti.

Nonostante il lavoro in acciaieria, il matrimonio e i figli in arrivo, mio padre non abbandonò mai il calcio, appassionandosi alla carriera di allenatore. Iniziò a fondare nuove società calcistiche coinvolgendo i ragazzi di San Giovanni, soprattutto coloro che provenivano da situazioni di disagio. Non era interessato ai risultati delle partite, quanto all’importanza educativa dello sport. Prima di ogni partita ripeteva sempre la stessa frase: “Si entra in campo, calzettoni su e maglietta dentro i pantaloni!”. Voleva che i suoi giocatori fossero ordinati, educati e corretti.

In seguito fonderà la società Fulgor Mazzola-Neri grazie all’aiuto di Don Marino Papi, parroco di Ponte alle Forche: nacque così un sodalizio eccezionale. Mio padre non frequentava la Chiesa ma Don Marino ripeteva sempre :” Senti Remo, al corpo pensaci te che alle anime ci penso io”. Don Marino fu uno dei primi preti a capire che i ragazzi si avvicinano alla Chiesa tramite lo sport e insieme a Remo organizzarono molte iniziative. Ricordo di una festa di quartiere durante la quale era prevista l’esibizione di un gruppo rock. Iniziò a diluviare e allora Don Marino tolse i paramenti dall’altare, chiamando tutti in Chiesa e continuando così la festa con tanto di esibizione musicale.

Quando mio padre si dedicava a qualcosa, sia in ambito calcistico sia in ambito sociale, poneva sempre al centro la componente umana. Un anno nella squadra arrivò un ragazzo soprannominato Dindo che avrebbe voluto fare il calciatore. Dindo aveva avuto un principio di polio e per questo aveva una gamba più corta dell’altra. Mio padre lo portò con se’ ad una partita e l’arbitro disse che non avrebbe potuto giocare. “Certo che giocherà, lui è il mio portiere” e da quel giorno Dindo non avrebbe mai lasciato la squadra.

Nel frattempo, Remo continuò a lavorare all’Italsider la quale, negli anni ‘70, aprì uno stabilimento nello Zaire e a San Giovanni giunsero una dozzina di congolesi per imparare il lavoro. I sangiovannesi nutrivano nei confronti di questi lavorati grande diffidenza e sospetto. Mio padre, però, intuì la necessità di integrare e conoscere questi ragazzi. Nonostante versassimo in gravi difficoltà economiche, li invitò a cena da noi, cucinò loro lo stufato alla sangiovannese e fondò con loro una squadra, ribattezzata scherzosamente “Nazionale dello Zaire”. Una volta giocarono al campo del Don Bosco di San Giovanni Valdarno, vennero più di quattrocento persone.

Era il 1966 e mio padre decise di prendere ancora più seriamente la carriera di allenatore iscrivendosi al corso di preparazione a Coverciano, diventando uno dei primi italiani a diplomarsi come allenatore ufficiale. Grazie al tesserino poteva allenare fino alla serie C e acquisì un certo prestigio. All’epoca l’Ambra non andava tanto bene, così mio padre promise al presidente di trovare un famoso giocatore per le ultime partite di campionato. Insieme andammo in un bar malfamato del Galluzzo in cui trovammo Vincenzo Rosito (ex giocatore del Potenza, ndr) che aveva già concluso la sua carriera. Rosito non fece molti goal ma lo stadio con lui era sempre pieno e, inoltre, l’Ambra si salvò.

Nel corso delle sue esperienze, mio padre si imbatté nell’AIDO, l’associazione italiana per la donazione di organi, tessuti e cellule che aveva sede solo nel nord Italia. Spinto dallo spirito di impegno sociale, decise di fondare il primo punto AIDO nel Valdarno, promuovendolo attraverso cene, feste di quartiere e iniziative. Per sponsorizzare maggiormente questa associazione decise di fare un’operazione assolutamente avanguardista per l’epoca: fondò la prima squadra di calcio femminile AIDO.

Il calcio femminile non esisteva in Valdarno e c’erano pochissime squadre a livello regionale. La prima sfida fu coinvolgere le giovani ragazze e portarle nel mondo del calcio non fu semplice. La squadra veniva vista con scetticismo ma mio padre si impegnò a renderla seria a tutti gli effetti, portandola in trasferta in tutta la Toscana e anche fuori regione. Il segreto del successo della squadra femminile, dalla quale emersero anche giocatrici di livello, era che Remo si approcciò all’allenamento delle ragazze esattamente come a quello dei ragazzi. Aveva intuito che la parità di trattamento e dignità erano le chiavi vincenti per la crescita sportiva e personale.

Le più grandi vittorie che mio padre abbia collezionato non sono state sul campo da calcio ma in ambito morale e sociale. Un ragazzo poliomielitico che diventa portiere, dodici ragazzi congolesi che mangiano insieme lo stufato alla sangiovannese, la prima squadra di calcio femminile contro i pregiudizi: tutti traguardi che mio padre ha raggiunto tenendo in mente sempre il suo motto:” Non si vive per se’ stessi, si vive per gli altri”.

Articoli correlati